“Il Guglielmino” non era solo un libro, ma uno splendido insegnante

Un post pubblicato sulla pagina facebook Amici del professor Salvatore Guglielmino mi ha riportato a ricordi degli anni ’60, al Liceo Carducci di Milano, quando nella sezione B avemmo la fortuna di averlo come insegnante di italiano.

Mi piace condividere l’ascolto della sua ultima intervista, a Radio Popolare, che insieme a Stefano Lamorgese avevamo ripescato per pubblicarla sul vecchio sito ormai abbandonato elbadipaul.it.

Eccola: https://vimeo.com/149650155

E, dopo averlo ascoltato, ecco, a corollario, un ricordo scritto qualche tempo fa. Una memoria personale che forse può offrire qualcosa in più a chi ha solo letto Guida al Novecento o Il sistema letterario-

Lo vedo come fosse ora, in piedi, come ripiegato su se stesso, il piede destro sulla pedana di legno e il gomito sulla cattedra, due o tre libri aperti davanti a sé, la fronte rugosa, come corrucciata, la mente intenta a cercare una a una le parole più adatte a trasmettere ai suoi studenti l’essenza di un testo. Parla a voce alta, ma è come se parlasse con se stesso, alzando di tanto in tanto la testa per rivolgersi a noi, a ciascuno di noi, che seguiamo con interesse e rispetto.

“Ascoltate come Leopardi sceglie con cura ogni parola …. : ‘Dolce e chiara è la notte e senza vento. E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti. Posa la luna, e di lontan rivela. Serena ogni montagna.’ Lo sentite? Sentite come ci trasmette la calma e la tranquillità di questo paesaggio, per ricrearci quella notte e farci immaginare, insieme a lui, la donna che ama e in quel momento sta dormendo? Ogni parola, ogni verso preparano il contrasto tra quella situazione “queta”, “serena” e il suo stato d’animo: ‘e già non sai né pensi quanta piaga m’apristi in mezzo al petto’. E da lì, da quella sua ferita, allarga poi lo sguardo al mondo intero e alla storia di un passato lontano. Da quelle immagini di pace fuori di lui e dalla ferita che avverte Leopardi richiama il contrasto tra il fragore delle battaglie e delle armi ’che n’andò per la terra e l’oceano’ e il pensiero di ‘come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia’. Vi arriva la forza di questa poesia? La sentite?”

Questo per me è stato “il Guglielmino”: non la Guida al Novecento o Il sistema letterario, scritto con Hermann Grosser, che avrebbero conquistato professori e studenti di tanti licei italiani, ma la voce viva e appassionata di una persona in carne e ossa, quella di un professore, che ha dedicato la vita a condividere quello che aveva compreso dei libri e della letteratura. Aveva trentasette anni (allora ci sembrava tanto grande) quando entrò, ospite dell’insegnante di lettere, nella nostra quarta ginnasio per darci l’idea del percorso che ci aspettava, due anni dopo, e a cui chiedeva di prepararci con le letture giuste. Voleva che cominciassimo per tempo a conoscere l’universo letterario e subito prima delle vacanze estive ci fornì, d’accordo con la nostra insegnante, una lunga lista di libri italiani e stranieri da leggere quanto prima.

C’erano, in quella lista, i romanzi di Calvino, Moravia, Pratolini, Cassola, Bassani, Pasolini, c’erano i suoi conterranei siciliani Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa e De Roberto (tornato in auge nel 2007 con il film I Viceré di Roberto Faenza); c’era il Leonardo Sciascia che lui incontrava spesso, come in una colonia siciliana, insieme a Vincenzo Consolo. Era una Milano viva in quegli anni, ben più frizzante di stimoli culturali, politici e sociali di quella “Milano da bere” che sarebbe venuta vent’anni dopo. Fu lui a far risuonare per la prima volta in molti di noi i nomi di Musil, Kafka e Proust e a generare curiosità intorno ai loro libri; fu lui a selezionare i testi di Tolstoi e Dostojevski, a indirizzarci verso Le anime morte di Gogol, la letteratura picaresca di Lazzarillo del Tormes, Gargantua e Pantagruel e così via.

Posso vedere ancora, come in una fotografia, la sua testa quasi calva, protetta dal freddo milanese da una coppola fino a quando entrava in classe, come sempre protetto da una sciarpa era il collo. Ricordo le sue rughe, certo precoci per un uomo non ancora quarantenne, e l’eco della sua voce dallo spiccato accento siciliano. Per quanto la sua scrittura, come scoprimmo anni dopo, era piana e scorrevole, il suo parlare era quasi incerto, inframmezzato da tante piccole pause, correzioni e aggiustamenti alla ricerca della parola giusta.

Gli piaceva leggere ad alta voce i brani che aveva selezionato con cura per noi. Per tre anni ogni mattina, al liceo Carducci di Milano, ho ascoltato pagine di scrittori italiani e stranieri d’ogni epoca attraverso brani letti da lui, intercalati dai suoi commenti. Non sapevo che il pomeriggio e la sera le avrebbe inserite con altrettanta cura in libri di testo che avrebbero invaso le scuole di tutta Italia, “il Guglielmino” appunto: un’antologia tanto diversa dalle altre perché attenta a ricercare l’essenza dei testi e a indicare ai lettori le direzioni, le connessioni e le chiavi possibili per trovarla.

“Non si è più quelli di prima dopo aver letto Petrarca o Pirandello: Petrarca è un’educazione sentimentale, è la scoperta dei sentimenti e della riflessione sui sentimenti, Pirandello è la lacerazione del “cielo di carta”, la scoperta del gran teatro del mondo, delle gabbie sociali e dei letti di Procuste che coartano e amputano la nostra personalità.”

Salvatore Guglielmino, Guida al Novecento, Principato editore, 1986

 

Se, tornando alla narrativa 35 anni dopo il liceo classico, ho potuto affrontare i testi come un esploratore, lo devo in buona parte alla lezione di Salvatore Guglielmino: un vero e proprio imprinting del mio rapporto con la letteratura. Posso ancora vederlo fosse oggi, il mio professore, con una sciarpa e con la testa quasi calva protetta dal freddo milanese da una coppola fino a quando entrava in classe. Aveva il gusto di leggere ad alta voce i brani che aveva scelto con cura per noi. Per tre anni ogni mattina, al liceo Carducci di Milano, ho ascoltato pagine di scrittori italiani e stranieri d’ogni epoca attraverso brani letti da lui e intercalati dai suoi commenti.

Ci insegnava, con metodo, a osservare, ad analizzare i segni del testo, ad alzare e affinare le nostre antenne di lettori. Ci formava, con l’esempio, alla curiosità e alla scoperta dei mondi cui i grandi libri davano accesso e ad ascoltare gli echi che generavano in noi, giovani lettori.

In un’intervista a Radio Popolare ritrasmessa nel 2001 dopo la sua scomparsa, rivelava, con la stessa voce calda e pacata che il tempo non aveva cambiato, qualche segreto del suo insegnamento: “C’è una complessità del discorso nel grande testo e che va conquistato. Però questo obiettivo non è fine a se stesso: il testo serve perché tale testo incida su di te. […]

Bisogna lavorare su due terreni. Il primo è quello delle competenze: per leggere Petrarca o Montale bisogna sapere che c’è un linguaggio specifico, specialistico, che si è formato in un percorso secolare, ma, e questo è l’errore di tanti critici e di tanti docenti, per molti finisce qui. No, comincia da qui! Ora hai gli strumenti per capire. Ma poi a te quel testo che cosa dice? Confrontati. Magari ti capiterà di confrontarti in seguito, di riprendere a trent’anni quello che non avevi capito a sedici o a diciotto, ma avviare su questa strada un rapporto coi grandi testi significa avere un patrimonio di colloquio che è sempre lì. Insomma: i libri sono sempre lì. Gli amici, gli amori vanno, vengono, ma per me i libri sono sempre lì.”

Solo ora posso comprendere quanto la lettura e la scrittura siano atti ed espressioni d’amore: di un amore incondizionato per le storie e i personaggi veri e inventati di ogni luogo e di ogni epoca e, di conseguenza, per tutte le esperienze della vita.[wl_faceted_search][wl_navigator]

Città Isaura

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