Il rispetto. Estratti dal libro di Richard Sennett (Il Mulino, 2003)

Richard Sennett, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, a cura di Gabriella Turnaturi, Il Mulino collana Intersezioni, 2003.

Avvertenza: La scelta di questi brani non può né vuole essere esaustiva. E’ uno dei tanti possibili percorsi attraverso un libro, che permettono, a chi non l’ha ancora letto, di conoscerne alcune parti, di provarne piccoli “assaggi”, che trasmettano il sapore del linguaggio, del ritmo, del pensiero dell’autore.

Carenza di rispetto

La mancanza di rispetto, anche se meno aggressiva di un insulto diretto, può ferire in maniera altrettanto viva. Non c’è insulto ma nemmeno riconoscimento; la persona coinvolta semplicemente non viene “vista” come essere umano pieno, la cui presenza conti qualcosa.
Quando una società tratta la massa della gente in questo modo, accordando solo a pochi il riconoscimento, crea una carenza di rispetto, quasi come se si trattasse di una sostanza troppo preziosa da far circolare. Al pari di altre carestie, anche questa è opera dell’uomo; ma a differenza del cibo, il rispetto non costa niente. Perché, allora, ne viene dispensato così poco?

Cosa significa “rispetto”

Le nazioni vanno in guerra per difendere il loro onore, le trattative sul lavoro falliscono perché i sindacati si sentono trattati con scarsa dignità dagli industriali, i cortigiani di Luigi XIV consideravano altamente prestigioso potersi sedere su uno sgabello alla presenza del nipote del re. Il soldato che ha combattuto valorosamente viene salutato con ammirazione, i pompieri sono orgogliosi del lavoro di squadra grazie al quale spengono incendi, un ricercatore che scopre qualcosa di nuovo trae soddisfazione dal suo lavoro. Il rispetto appare così importante nella nostra esperienza delle relazioni sociali e del Sé che dovremmo cercare di definirlo meglio.
La sociologia dispone di parecchi sinonimi per indicare differenti aspetti di “rispetto” come “status”, “prestigio”, “riconoscimento”, “onore” e “dignità”. L’elenco sarebbe più lungo ma ci fermiamo per evitare noiose astrazioni; preferiamo piuttosto rivolgerci alla musica per sostanziare il vocabolario sociale del rispetto.
Quando cominciai a suonare musica da camera, il mio insegnante mi ingiunse di rispettare gli altri interpreti, senza tuttavia spiegare cosa intendesse. Ma i musicisti imparano a farlo in genere usando il loro orecchio anziché le parole.

Quando gli individui suonano bene gli “strumenti sociali” allora riescono a entrare in contatto con gli estranei, diventano emotivamente coinvolti in fatti non personali, si impegnano nelle istituzioni.

[Nei termini “status” e “prestigio”] manca qualcosa che implichi la reciprocità, cosa che invece c’è nel termine “riconoscimento”.

Recita un proverbio dei cabili del Nord Africa: “L’uomo è uomo tramite gli altri uomini; Dio solo è Dio grazie a se stesso” Questo detto punta a definire la dignità umana: essa viene dalla fede in Dio, a prescindere dai codici d’onore, dalla comunicazione fra gli uomini e dalle capacità espressive. La società moderna ha tentato di definire due equivalenti laici di pari importanza.
Uno risale alle prime stesure dei diritti umani universali, soprattutto a Cesare Beccaria. In Dei delitti e delle pene (1764) Beccaria sostiene che la tortura, quale che sia la motivazione, buona o cattiva, va contro la dignità umana. E’ una tesi che presuppone che il corpo umano abbia dei limiti naturali di piacere e dolore.

Il rispetto della sofferenza altrui conferisce agli esseri umani una dignità laica prossima, nella sua gravità, al rispetto per il divino nella società più tradizionali.
L’altra traiettoria della società laica moderna è stata l’enfasi sulla dignità del lavoro. La dignità del lavoro era un concetto ampiamente estraneo alla società antica; l’economia era basata essenzialmente sulla schiavitù – anche se c’erano delle eccezioni agropastorali, come si legge nelle Georgiche di Virgilio. Il lavoro cristiano di tipo monastico era concepito per il servizio di Dio, piuttosto che come fonte di dignità in sé.
Le storiche Linda Gordon e Nancy Fraser definiscono questo valore così: “Il lavoratore tende a divenire il soggetto sociale universale. Ci si aspetta che tutti lavorino e siano autosufficienti. “Ogni adulto che non rientri nella categoria di ‘lavoratore’ deve sopportare un peso maggiore di autogiustificazione.

L’etica del lavoroconsiste, per Max Weber, nel “mettersi alla prova tramite il lavoro; ciò che l’individuo deve dimostrare è il suo valore di fondo.

L’etica del lavoro è concorrenziale, richiede giudizi comparativi di valore; coloro che vincono possono far finta di non vedere i perdenti.
Quando il lavoro assume questa forma, la dignità del corpo differisce dalla dignità del lavoro. Sono entrambi valori universali, ma la dignità del corpo è un valore che tutti possono condividere, mentre la dignità del lavoro può essere raggiunta solo da pochi.

Un’indagine sul rispetto

La società ha tre modi per modellare un carattere portando l’individuo a meritare rispetto o a non ispirarne affatto. Il primo modo avviene attraverso la crescita personale, in particolare sviluppando abilità e competenze.
Il secondo modo consiste nella cura di sé. La cura di sé può anche voler dire non diventare un onere per gli altri: così, l’adulto bisognoso incorre nella vergogna, la persona autosufficiente invece merita rispetto. Questo modo di guadagnare rispetto deriva dall’odio che la società moderna nutre per il parassitismo; la società non ama la dissipazione di energie, ma ancor più non desidera – razionalmente o meno – essere assillata da richieste non giustificate.
Il terzo modo di meritare rispetto è di dare agli altri. Questa è forse la fonte più universale, profonda e senza tempo con cui una persona può attingere stima.

Lo scambio è il principio sociale che anima il carattere di chi contribuisce alla comunità.

La vergogna della dipendenza

Immaginate un innamorato che dichiari: “Non preoccuparti, posso bastare a me stesso, non sarò mai un peso per te”. Andrebbe messo alla porta: una creatura senza bisogni non potrebbe mai prendere sul serio i nostri. Nella vita privata la dipendenza lega le persone. Invece, nell’ambito pubblico, la dipendenza appare umiliante. Appare così in particolare agli attuali riformatori del welfare.

Pur essendo così essenziale in amore, amicizia e parentela il bisogno degli altri viene rimosso dalla convinzione che la dipendenza sia umiliante.

Di tutti coloro che hanno sottolineato la vergogna della dipendenza si potrebbe dire che hanno orrore della scena primaria materna: il bambino che succhia il latte della madre. Essi paventano che, per costrizione o inclinazione, gli esseri adulti vogliono continuare a succhiare; il seno materno diventa lo stato. Ciò che distingue Il liberalismo è la visione dell’uomo che allontana le labbra e diventa, in questo modo, cittadino.

Di per sé l’etica protestante del lavoro è una sorta di perversione dei valori liberali; l’etica del lavoro spinge le persone a dare prova del loro merito, a dimostrare quanto sono indipendenti, attive, determinate. Tutto ciò avviene nella negazione del diritto al piacere, e anche così la prova non è mai definitiva: l’uomo è spinto incessantemente a fornire nuove prove del suo valore.

Questo valore si fece strada nel nascente welfare state. Fin dall’inizio dell’Ottocento, i riformatori sociali distinsero fra indigenti che vivevano di assistenza e operai poveri che lavoravano. Gli indigenti erano visti “non semplicemente come poveri, bensì come degradati, dal carattere corrotto e dalla volontà sepolta sotto la dipendenza dalla carità”, osservano Nancy Fraser e Linda Gordon.

La contrapposizione tra lavoratore e indigente ha avuto una sua fortuna. Nel sostenere che “essere povero è una condizione oggettiva” e che “essere povero è spesso associato a considerevoli qualità personali il senatore Moynihan, come i riformatori dell’800, intende lavare la macchia della vergogna dalla semplice povertà, affermando la dignità del povero che lavora, per quanto modeste siano le sue mansioni.

L’avversione per gli indigenti e l’equazione tra vita improduttiva e mancanza di carattere accomunano, durante l’Ottocento, i rivoluzionari e i radicali ai borghesi impegnati in iniziative assistenziali e ai riformatori dell’istruzione.

Riflessioni sul welfare

I riformatori del welfare sono stati, a modo loro, sociologi. Essi sono convinti che il lavoro sia una fonte migliore di stima di sé rispetto a un assegno statale; credono che nell’ambito del possibile sia meglio rimpiazzare istituzioni e professionisti dell’assistenza con le comunità e i volontari. Dietro queste aspirazioni sociali sta la convinzione che il welfare state dovrebbe funzionare il più possibile come un’azienda con fini di lucro.
Una riforma di questo genere è sociologia ingenua. Ingenua perché le privatizzazioni e le comunità non cancelleranno mai le tante combinazioni fra talento, dipendenza e prestazione assistenziale. Inoltre, la visione che questi riformatori hanno delle istituzioni è sbagliata. Muoversi sulla base di questa visione erronea non può che peggiorare la disuguaglianza nel rispetto sociale, emarginando gli utenti del welfare del resto della società.

Un carattere aperto al mondo 

La frase inglese “a solid character” evoca qualcuno che può pensare a sé con stima e rispetto. In America l’accento è posto sulla sicurezza di sé; in Francia si dice che una persona del genere “sta bene nella sua pelle”. Sono tutte espressioni di fiducia nelle proprie capacità.

L’antropologo Claude Lévi-Strauss ha spinto l’analisi un poco più lontano: egli considerava gli individui troppo sicuri di sé come persone capaci di danneggiare se stessi: il fatto di sentirsi tanto “bene nella propria pelle” poteva addirittura paralizzare nella capacità di relazionarsi con gli altri. Il problema è dunque come aprirsi all’esterno mantenendo un solido senso di sé.

La politica del rispetto

Il tipo di eguaglianza che ho affermato in questo libro è fondato sulla psicologia dell’autonomia. Piuttosto che una parità di comprensione, autonomia significa accettare negli altri proprio ciò che non si capisce di loro. Così facendo, si tratta la loro autonomia come uguale alla propria. Il riconoscimento dell’autonomia gratifica gratifica il debole o l’emarginato; fare questa concessione finisce poi per rafforzare il proprio carattere.

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