IL VIAGGIO

Racconto di Anna Maria Brecciaroli

Terzo premio sezione pubblica del Concorso letterario “In viaggio sulla via Francigena

Avevo dimenticato cosa fosse il silenzio! Camminare e sentire solo il rumore dei miei passi. Avevo dimenticato l’odore dell’erba fresca di prima mattina bagnata dalla notte.
Avevo dimenticato i colori dei prati e delle chiome degli alberi e, il bianco delle nuvole come zucchero filato.
Avevo dimenticato il vento fresco sul viso; il rumore delle foglie, il volare degli uccelli e il bisbigliare dei boschi. Avevo dimenticato la polvere dei sentieri; le pozzanghere testimonianza di un acquazzone primaverile. Ma la cosa più importante avevo dimenticato di stare con me stessa.
Questo viaggio lo avevo desiderato tanto e, la Via Francigena era quello che volevo. Volevo riempirmi gli occhi di antichi paesaggi, passare in posti attraversati già dai nostri padri; volevo in un certo senso tornare a casa.
Mi era piaciuta l’idea del “turismo lento”; mi avrebbe dato l’opportunità di appagare i miei sensi, di misurare la solitudine e di pensare.
Un po’ di cose nello zaino, scarpe comode, mappa dettagliata del viaggio, un piccolo kit di pronto soccorso.
Il cammino era stato lungo ma piacevole. Ero arrivata quasi a Roma. Una delle mie ultime fermate fu Formello.
Mi ritrovai vicino la Via Cassia in un posto incantevole chiamato Valle del Sorbo, attraversata in tutta la sua lunghezza dal fiume Cremera creando forre e fitta vegetazione. Arroccato su di uno sperone roccioso il Santuario della Madonna del Sorbo, dove nel 1487 i frati del Carmelo fondarono un monastero. Una leggenda narra di un miracolo fatto ad un povero guardiano di porci mutilato ad un braccio al quale apparve la Madonna che lo guarì. Il Santuario è costituito dalla Chiesa ed altri edifici posti in più livelli dove si accede da scalette; nella piazzetta più alta vi è posto il Santuario stesso. Composto da tre navate con colonne costruite con blocchi tufacei. Qui si venera la Madonna il martedì dopo Pasqua (ho scoperto essere una tradizione formellese che trae origine da una contesa tra gli abitanti di Formello e Campagnano sulla gestione dei prati del Parco stesso in occasione delle gite della Pasquetta). La mia anima ed i miei occhi godevano davanti a tale meraviglia e misticismo.
Il fiume Cremera scorre solitario tra forre, piccole sorgenti ed un intrigo fitto di vegetazione quale grande coperta a protezione del fiume stesso. La Vecchia Mola con la cascata d’ acqua luogo di luci e penombre, fino ad arrivare a Grotta Franca. La tradizione vuole che si chiami così perché rifugio di briganti che riuscivano a farla “franca” dall’essere catturati quando si rifugiavano qui.
Anticamente vi era un tempio prima pagano poi cristiano. La leggenda racconta che verso l’anno Mille in questo posto ci fosse un maniero abitato da assassini e da un sanguinario cretese che rapinava donne sulla vicina Via Cassia; un giorno fu rapinata una pia donna spagnola che si dirigeva a Roma e fu imprigionata al buio nei sotterranei dell’edificio. Ella invocò la Vergine Maria che mandò un Angelo a soccorrerla. Il suo aguzzino se ne accorse e cercò di riprenderla così la Celeste Creatura lo fulminò riducendo tutto in un mucchio di rovine. Si parla che sotto quelle macerie vi sia sepolto un tesoro custodito da un mostruoso serpente e che nelle notti di plenilunio si aggiri un fantasma.
La storia mi riporta alla mente i terribili boati sotterranei che nel 56 a.C. sconvolsero la popolazione di Roma e, in che modo gli Etruschi differivano i fulmini; quelli che si scaturivano alla sinistra del cielo cioè da est erano segni divini favorevoli mandati ai mortali, gli altri che venivano da altre direzioni erano di cattivo presagio se non addirittura nefasti.
In questo posto si respira aria antica, aria che sa di storia. Aria che ti cattura tutto il corpo, che ti entra nelle ossa e che non ti lascia più.
Dopo avere da qui attraversato un sentiero sterrato, arrivai in paese.
All’ inizio pensai ad uno di quei paesi tipici di una periferia di una grande città come Roma.
Entrai nel centro storico attraverso un arco sormontato da uno stemma in peperino dei Chigi raffigurante armi e una torre coronata da merli ghibellini.
Il vano di ingresso coperto ha sul fondo una nicchia rappresentante la Resurrezione di Nostro Signore dove sopra di essa sormontata ancora dallo stemma Chigiano vi è la scritta “ORIENS AB OCCASU”. Posta lì come per ricordare a chi passava il ritmo perpetuo del giorno; per segnare il tempo che inesorabilmente passa sempre uguale; il giorno nasce e muore, poi rinasce e finisce sempre allo stesso modo e noi mortali assistiamo a questo.
……… Pensandoci bene apparteniamo anche noi alla medesima storia, che continua attraverso i secoli…… disse Frodo: “Sono i personaggi che se ne vanno quando è terminata la loro parte. La nostra finirà più tardi o a breve “.
Attraversai un secondo arco, ed entrando in Piazza S. Lorenzo con l’omonima Chiesa, potei ammirare Palazzo Chigi e l’Oratorio della Natività.
Davanti Palazzo Chigi si apre una via che porta al Centro Storico tagliando in due parti lo stesso con la Porta da Capo e la Porta da Piedi. Da qui si raggiunge la Chiesa di San Michele Arcangelo dal campanile stile Romanico che svetta sopra i tetti delle vecchie case.
Vasi di fiori emanano annosi profumi incoronando antichi balconi; vecchie piazzette vissute ora vuote ma dove immaginavo gente seduta a godere il fresco della sera, cumuli di fieno, stridii dei carri e canzoni di vivaci monelli.
Tagliando per il centro arrivai ad una discesa e proseguii; attraversai un sentiero odoroso di canne; qua e là cancelli di ville signorili. Avevo letto di questa scorciatoia per arrivare all’antica Città di Vejo dove si potevano ammirare lungo il cammino delle tombe antiche etrusche. Dopo aver camminato per una carrareccia attraversata da greggi di pecore e superato una piccola valle mi ritrovai davanti a scavi di tombe recenti. Si tratta di 4 tombe di epoca 650-670 a.C. posta sulla cinta muraria di Vejo, presumibilmente appartenenti allo stesso nucleo familiare. Nella prima tomba era sepolto un incenerato di sesso maschile giovane dentro di una olla dipinta con un serpente; in un’altra tomba una donna riconoscibile dal corredo di oggetti prettamente femminili e personali come gli strumenti per la filatura e fibule in argento. Lungo il lato destro vi era la sepoltura di un Principe con un ricchissimo corredo. Deposto in una urna bronzea posta sopra di un carro a grandezza naturale anche esso di bronzo. I resti combusti del giovane erano avvolti in un panno fermato da una fibbia d’argento e oro, insieme a un pugnale e lance uno scettro regale costituito da un fusto ligneo trapunto in argento a cui applicato un pomo di bronzo.
Gli etruschi avevano un forte culto per la morte. Per cui la tomba era il modo più normale per mantenere una memoria storica al sacro vincolo di sangue; è l’umana e intima necessità di ricordare il passato di cui si doveva tramandare il valore e la saggezza. Da queste parti è facile trovare tombe poste sulle antiche strade di accesso alla città di Vejo. Tutti i giorni andando nei campi e col gregge e la sera tornando a casa, ognuno aveva modo di dedicare un pensiero ai loro morti, ma anche a riflettere.
Chissà chi era quel giovane principe, forse un guerriero? quel carro bronzeo gli apparteneva? Era morto in battaglia? da eroe?
……. La guerra è indispensabile per difendere la nostra vita da un distruttore che divorerebbe ogni cosa; ma io non amo la lucente spada per la sua lama tagliente, né la freccia per la sua rapidità, né il guerriero per la gloria acquisita. Amo ciò che difendo: la città degli Uomini di Numenor; e desidero che la si ami per ciò che custodisce di ricordi, antichità, bellezza ed eredità di saggezza……
Non tutto quel ch’è oro brilla; né gli erranti perduti; il vecchio che è forte non s’aggrinza; le radici profonde non gelano; dalle ceneri rinascerà il fuoco. L’ombra sprigionerà una scintilla; nuova sarà la lama ora rotta e Re quel ch’è senza corona.
Dopo aver attraversato un fitto boschetto mi ritrovai in una immensa vallata dove potevo scorgere in lontananza Roma. Ciao Formello!!! Varcavo ora il confine verso la Città Eterna. Eccomi Roma. Un pellegrino non deve mai guardare indietro, ma in questo caso mi girai. Il mio Viaggio era giunto al termine, e pensavo a quanto fosse vero quel detto “ogni viaggio lo vivi tre volte: quando lo sogni, quando lo vivi e quando lo ricordi “.

La foto è di Luigi Plos

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Città Isaura

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