Alberto Manguel: respiro libri, ho imparato da Borges

Alberto Manguel ovvero i libri. Libri che attraversano una vita, che la segnano, le danno un senso pieno e regalano una rara e saggia umiltà. Si potrebbe descrivere Manguel come un simpatico sorriso tra i libri, nel mare di quegli oggetti amati in cui ha imparato a nuotare fin da ragazzo. E allora il luogo scelto per l’intervista al Festivaletteratura, l’Archivio di Stato di Mantova (ancora grazie!) si dimostra fertile e felice. Pochi come lui potrebbero sentirsi tanto bene tra gli scaffali alti e pieni di carte di questa biblioteca. Ma in tutto ciò che ha sapore di libri e di labirinto lui si trova pienamente a suo agio, e mette a suo agio chi sta con lui. Non si può che iniziare da Borges, che rappresenta la scintilla della sua adolescenza, ma poi la figura di Borges si allontana anche dallo sfondo e resta in luce questo esemplare unico e originale di lettore-scrittore che può accompagnare chiunque attraverso i percorsi apparentemente più complessi. L’intervista è in italiano che, in ordine di conoscenza e di uso, è solo la quinta lingua di Manguel (ma ne seguono altre, apprese nel suo continuo peregrinare nel mondo reale e in quello dei libri). Anche il suo italiano è colto e insieme semplice, proprio come la sua scrittura.

“Ci sono scrittori che tentano di mettere il mondo in un libro e ce ne sono altri, più rari, per i quali il mondo è un libro, un libro che cercano di leggere per sé e per gli altri.” Borges, scrive lei, era uno di loro. Lei fa parte di questa categoria?
Sì, io forse appartengo a questa categoria, ma parlavo soprattutto di scrittori che come Borges ci offrono un punto di vista dal quale vedere tutta la letteratura. E con lui tutta la letteratura cambia, diventa un’altra.

Lei da ragazzo aveva in mente di vivere “ tra i libri, nei libri, con i libri”. Decisamente questo progetto le è riuscito.
Volevo farlo, ma io sono nato in Argentina e per un ragazzo in Argentina, negli anni ’50 e ’60 non si poteva diventare qualcuno che vive con i libri. Si poteva essere medico, ingegnere o avvocato. Fu Borges a dirmi che si poteva vivere tra i libri, con i libri, si poteva vivere come lettore. Essere scrittore non è fondamentale, quello che importante è essere lettore.

Lei scrive infatti: “Potrei stare senza scrivere ma non senza leggere” e definisce la lettura essenziale come la respirazione.
Sì, io credo che noi come essere umani veniamo al mondo come creature che leggono, che leggono il mondo, i visi degli altri e naturalmente anche i testi. E questa è stata per me la forma per conoscere il mondo: L’esperienza viene dopo, per confermare o per negare, ma prima passa per i libri.

In “Con Borges” lei ricorda tutti i quattro anni dell’adolescenza in cui leggeva i libri a Borges. Quale fu l’emozione che provò quando Borges le chiese di leggere i libri per lui?
Io lavoravo in una libreria anglotedesca e Borges veniva lì a comprare i libri. Era cieco e viveva con sua madre, che aveva già novant’anni e si affaticava molto a leggere. Allora lui un giorno, avevo quattordici anni, mi chiese se non facevo niente la sera e se potevo leggere per lui. Adesso so che questo è stato uno dei momenti più importanti della mia vita, ma quando ero adolescente, con l’arroganza dell’adolescenza, credevo di essere io a fare un favore a questo vecchio signore cieco. Perché quando uno è giovane, crede di sapere tutto, ha letto tutto, e quando Borges mi parlava di questo o quell’autore, se l’avevo letto dicevo. ‘Sì, è importante’, altrimenti pensavo: ‘Cosa ne sa lui?’. Solo dopo ho compreso che questo era un momento di epifania. Borges mi ha insegnato il potere che ha il lettore. Era straordinario come sapeva spiegare che il lettore è quello che decide della vita e della natura di un libro. Lo vedevo quando leggevo per lui: io leggevo e lui faceva i commenti, che diventavano il libro.

Ha avuto ogni tanto l’impressione di trovarsi in una biblioteca universale, anche se lei scrive che la biblioteca di casa Borges era deludente?
Certo, perché lui dava l’impressione di avere letto tutto, ma di fatto le sue letture riguardavano un campo limitato, c’erano tanti autori che non gli piacevano, e dunque non si parlava mai di Zola, di Pirandello, di Victor Hugo. Lui aveva la sua biblioteca personale e questa l’aveva tutta in testa e quando si parlava di letteratura era come se leggesse questi libri. Io gli leggevo i libri perché aveva bisogno di sentire quello che già conosceva, perché voleva scrivere dei testi di prosa, cosa che non aveva più fatto dopo essere diventato cieco. In un primo tempo pensava di poter scrivere solo in poesia, perché era più semplice da comporre e dettare. Ma un giorno si è detto che forse poteva fare anche della prosa. “Vediamo come hanno fatto gli altri”. E mi faceva leggere Henry James o Kipling o altri, per vedere, come un meccanico, come era costruita quella prosa. Leggevamo due righe, mi fermava, ed esaminava la struttura del testo. Era un vero lavoro di studio, ma di un meccanico.

In una poesia che lei cita Borges scrive, a proposito della cecità: “Dio mi ha dato i libri e la notte.”…
(mi interrompe recitando a memoria) “Nadie rebaje a lágrima o reproche Esta declaración de la maestría De Dios, que con magnífica ironía Me dio a la vez los libros y la noche.”
… che rapporto c’è tra i libri e la notte, tema che lei ha ripreso nel suo ultimo libro, ‘Il computer di S.Agostino’?
Borges nel 1955 era già cieco e quando cadde il governo di Peron, lui, che aveva molto sofferto sotto Peron, diventò direttore della Biblioteca nazionale argentina. E c’era già una tradizione curiosissima di questa Biblioteca, perché prima di Borges già altri due direttori della stessa biblioteca erano ciechi. Borges dunque diceva: “oggi ho tutta questa enorme biblioteca, ma non posso vederla. E’ come un’ironia di Dio, e a questo aggiungeva: questa è stata data a me, che immaginavo il paradiso sotto forma di una biblioteca”.

Questa vicenda sembra ricollegarsi a una storia più antica, alla leggenda di Omero cieco.
Certo, lui si rendeva conto di far parte di questa famiglia di scrittori ciechi, Omero, ma anche Milton. Per lui era anche una forma per lottare contro la timidezza. Da giovane non riusciva a parlare in pubblico, faceva leggere i suoi testi da altri. Ma quando divenne cieco disse a se stesso: ‘Io questa gente non posso vederla. Allora mi immagino di parlare a una sola persona’, e cominciò a parlare benissimo, anche in pubblico.

Lei ha ripreso questo sogno della biblioteca universale e ha scritto la storia della lettura, dopo aver studiato l’argomento per sette anni. Che esperienza ne ha ricavato?
Soprattutto la conoscenza della mia ignoranza. Quando mi sono messo a scrivere una storia della lettura, credendo di sapere molto per il fatto di essere lettore, ho visto quasi immediatamente che non sapevo niente: quando abbiamo cominciato a leggere? cosa succede nel nostro cervello quando leggiamo? perché abbiamo bisogno di avere i libri? un traduttore, un lettore come fa a leggere e nello stesso tempo a non censurare quello che legge? Dovevo rispondere a tutte queste domande cercando nei libri e ho trovato, se non una risposta, almeno una serie di questioni per me interessanti. Ma alla fine del libro dico che la vera storia della lettura non l’ho scritta; questo libro potrei leggerlo, so che cos’è, che forma ha, ma io non l’ho scritto.

Tant’è vero che lei nelle ultime pagine dice che sarebbe ancora da scrivere, come storia dei lettori, e lascia idealmente delle pagine bianche.
Sì, quello che mi è sembrato sorprendente è che noi abbiamo tante storie della letteratura, storie dei libri, scritte dal punto di vista degli scrittori, che sono quelli che hanno poco potere nel campo della letteratura. Chi decide davvero cos’è un libro, e quali libri possono restare, è il lettore. Ogni scrittore vuole che tutti leggano il suo libro, spera che la sua opera resti immortale. Ma è il lettore che guarda tutto e dice “io prendo questo”, e tutti gli altri verranno dimenticati. E’ un potere straordinario, ma questa storia non era ancora stata scritta. Io ci ho provato, ma ho visto che era impossibile. Direi che ho finito la mia storia della lettura, ma non la storia della lettura.

La sua storia personale però coincide anche con la storia di molti di noi lettori. E ad esempio affronta il tema del possesso dei libri, parla dell’esperienza dell’incapacità di liberarsi dei libri. Lei è molto possessivo, in questo campo.
Sono sicuramente molto possessivo. Il lettore ha una caratteristica che forse non è buona nel campo dell’amore, ma nel campo della lettura è ottima, è la poligamia. Un lettore è poligamo, non ha l’obbligo di amare un solo libro. E questo implica anche un altro aspetto: io amo l’oggetto libro, non posso leggere al computer, posso cercare sul computer un’informazione , ma non posso leggere elettronicamente “Guerra e pace”. Ho bisogno del peso del libro, ho bisogno di leggere con tutto il mio corpo, di sentire l’odore del libro, di tenere il libro in mano. Essere lettore è un po’ come essere amante, perché il libro alla fine è l’unico oggetto che portiamo a letto.

E’ un tema che torna ne “Il computer e sant’Agostino” e cita proprio sant’Agostino, che baciava i libri.
E’ Petrarca che dice questo. Nel ‘Secretum meum’ Petrarca inventa un dialogo con il santo che lui amava tanto e gli dice che non sa come fare per leggere e non dimenticare quello che legge. E sant’Agostino gli risponde che questo accade perché quando lui legge non fa sì che il libro diventi una parte del suo corpo. ‘Si deve incorporare la lettura’. E questo sant’Agostino lo faceva con grande passione baciando il libro che leggeva. Noi oggi non leggiamo così. Per noi oggi la lettura, se la facciamo, non ha alcun prestigio. Siamo in una società per cui l’idea di valore non è legata all’aspetto estetico, intellettuale, etico, riguarda solo il valore commerciale. E dunque il lettore è un po’ perso in questo mondo, perché fa un’attività che non ha un valore commerciale: quando lei legge non fa soldi, al contrario spende soldi per comprare i libri. Io penso che noi dobbiamo tornare un po’ a questa forma di leggere che aveva Agostino, che credeva davvero che lo spirito degli altri passasse attraverso il libro, che la memoria dell’umanità, l’esperienza dell’umanità è la nostra. E anche Seneca sostiene questo, quando dice che noi non siamo obbligati a parlare solo con i nostri contemporanei e ad avere come genitori quelli che ci hanno dato la vita. I genitori sono anche la biblioteca dove io posso scegliere che Platore o Shakespeare o Dante siano i miei genitori. Che loro oggi possano parlare con me è un atto di magia che nessun computer può fare. Il computer è il presente, va bene per un dialogo superficiale, immediato; è tutto il contrario della lettura, che è profonda, che è lenta, e che ha tutto questo passato che torna a noi sulla pagina.

Usciamo da questo archivio di Stato e ci troviamo nel centro di Mantova, nel pieno del Festival della letteratura, dove ci sono i libri nelle piazze. Nella storia della lettura lei parla anche dei festival letterari, dicendo che “propagano la lettura e la scrittura”. In che senso?
Perché il lettore ha il desiderio di vedere questo mago. E anche se questa magia non si realizza quando si vede l’autore, è un po’ come visitare un giardino zoologico, con questi animali mitici che sono gli autori.

E lei come si sente, in questa veste di animale mitico?
Come una tartaruga. Per vedere meglio voglio mettermi addosso la mia casa.

Intervista di Luciano Minerva, Mantova 2005

Città Isaura

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