David Grossman: Il ruolo dell’arte nella memoria della Shoah

Nel 2008, in occasione della Giornata della memoria, lo scrittore israeliano David Grossman ottenne a Firenze la laurea honoris causa della Facoltà di lettere e filosofia in Studi letterari e culturali internazionali, ”quale riconoscimento delle sue alte qualità artistiche e del suo illuminato impegno civile”.

Grossman lectio magistralis

Grossman è autore di capolavori tradotti in molte lingue, a partire da Vedi alla voce: Amore, scritto a trentadue anni,  che proponeva il tema della Shoah in una prospettiva del tutto  originale: una tragedia raccontata per allusioni attraverso gli occhi di un bambino figlio di sopravvissuti che prova a immaginare “la belva nazista” e “il paese di là”.
Oltre al video, reso disponibile in occasione della Giornata della memoria 2021 dalle Teche Rai nella trasmissione di Rainews24, riproponiamo qui il testo integrale della lectio magistralis di Grossman, pubblicato di recente in Sparare a una colomba (Mondadori).

“Qui vorrei parlare di cose sule quali ho scritto molto che vivo incessantemente in veste di ebreo, di israeliano e di scrittore. cose che toccano la ferita aperta degli ebrei e degli altri popoli del mondo, soprattutto quelli europei.
Ecco alcuni interrogativi che questa giornata internazionale della memoria risveglia: esiste oggi un dibattito sulla Shoah in quanto avvenimento dal significato universale e non esclusivamente ebraico? Tale dibattito è significativo e autentico oppure con l’andare degli anni si è trasformato in una sorta di obbligo formale, di tributo che il senso di colpa europeo si sente in dovere di pagare una volta all’anno agli ebrei e ai patimenti da loro subiti durante la Shoah? E noi rappresentanti di questa generazione, di tutti i popoli e le religioni comprendiamo l’incisività e l’attualità degli interrogativi che la Shoah ci prospetta e la rilevanza che hanno per noi ancora oggi soprattutto oggi?
Queste domande concernono peraltro anche il nostro rapporto con gli stranieri, i diversi, i deboli di ogni nazione del globo, concernono l’indifferenza che il mondo mostra di volta in volta verso episodi di massacro in Ruanda, in Congo, in Kosovo, in Cecenia, nel Darfur, concernono la malvagità e la crudeltà del genere umano che nel periodo della Shoah si profilarono come concreta possibilità di comportamento? in che modo trovano espressione nella nostra vita e quale influenza hanno sulla conformazione e sulla condotta del genere umano? In altre parole la memoria che serbiamo della Shoah può essere veramente una sorta di segnale e di avvertimento morale. E siamo noi in grado di trasformare i suoi insegnamenti in parte integrante della nostra vita?
A causa del poco tempo a disposizione vorrei parlare solo di un determinato aspetto della memoria della Shoah e di come a mio parere sia possibile rivitalizzare il dibattito intorno ad essa e renderlo più rilevante nella vita di ciascuno di noi. Quanto più ci allontaniamo dall’epoca degli avvenimenti, quanto più il numero dei sopravvissuti diminuisce, tanto più cresce il timore che il dibattito sulla Shoah rimanga circoscritto a un ambito accademico e astratto, e perda gradualmente il legame con una dimensione umana, personale, privata. Apparentemente questo è un processo naturale. Coloro  che ricordano si allontanano dalla sofferenza personale delle vittime a favore di una prospettiva storica più ampia, generale, teorica. In un certo senso è più facile e perfino comodo occuparsi di un evento storico traumatico con gli strumenti del pensiero astratto e del dibattito concettuale, piuttosto che esporsi di volta in volta alle atrocità all’insopportabile sofferenza del singolo, dell’individuo, dell’uomo, della donna e del bambino vittime di quel trauma.
Noi ebrei non abbiamo altra scelta che toccare direttamente con la mano la Shoah in quasi ogni circostanza o congiuntura significativa della nostra vita.  La Shoah ha elaborato in noi schemi di pensiero e di condotta ravvisabili in quasi ogni ambito della nostra esistenza: dal modo in cui alleviamo ed educhiamo i figli a quello con cui lo Stato d’Israele affronta i problemi di sicurezza e di politica estera. Ma la Shoah è più che altro presente nel modo occulto, tragico con cui gli israeliani e gli ebrei percepiscono la loro esistenza in quanto popolo, la loro diversità, l’agghiacciante peculiarità del loro destino, la loro estraneità tra gli altri popoli, l’esperienza della loro esistenza che appare immancabilmente fragile, incerta, sempre in bilico, e sulla quale incombe l’ombra di una qualche minaccia. Mentre gli altri popoli possono con relativa facilità evitare di riflettere sulle conseguenze della Shoah e dunque sfuggire ad un dibattito  profondo che le concerne, noi ebrei siamo condannati a dibatterne ripetutamente, a cadere talvolta nella trappola dell’angoscia esistenziale che la Shoah ha scavato in noi, a definire gli aspetti significativi della nostra vita nei termini categorici, estremi che la Shoah ha lasciato impresso in noi.
In un certo senso si può dire che il popolo ebraico e di fatto quasi ogni ebreo sia un colombo viaggiatore della Shoah, che lo voglia o no. Ma affinché questa disquisizione non rimanga a un livello puramente teorico, non appaia come una sorta di dissertazione filosofica, distante dagli esseri umani, vorrei raccontarvi una storia di quel periodo. Non è una storia particolarmente traumatica, ne ho sentite di più brutte e terribili. Eppure racchiude una tale sofferenza, un tale dolore che da anni non mi dà pace. Si tratta della vicenda di un giornalista ebreo polacco di nome Leib Rochman.
Negli anni Trenta del secolo scorso Rochman scriveva per un giornale in yiddish pubblicato a Varsavia. Dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale fece ritorno alla cittadina nella quale era nato, Minsk Mazowiecki, situata ad est di Varsavia, dove si attivò come assistente sociale tra gli ebrei del ghetto, facendo meraviglie nel procacciare cibo agli affamati. Nel 1942 sposò Ester, anche lei nativa del luogo. Tre mesi dopo i nazisti sterminarono la comunità ebraica: dei seimila ebrei della cittadina ne rimasero meno di venti. Leib ed Ester, insieme con la sorella minore di quest’ultima, riuscirono a mettersi in salvo e a trovare rifugio presso una donna polacca il cui soprannome era Ciotka,“zia” in polacco, un’anziana prostituta cordiale e piena di vita. Leib ed  Ester affidarono a degli amici polacchi i risparmi che avevano messo da parte negli anni prima della guerra e di tanto in tanto mandavano da loro Ciotka, affinché venisse pagata, continuasse a tenerli con sé e si preoccupasse della loro sopravvivenza. Nel suo salotto Ciotka costruì per Leib ed Ester una parete-nascondiglio a poca distanza da quella originaria. Leib, sua moglie e sua cognata vissero nell’intercapedine tra le due pareti per quasi due anni. A un certo punto decisero di portarvi anche Haim, il fratellino minore di Ester, tenuto prigioniero in un campo dei dintorni e consegnarono a Ciotka del denaro affinché si recasse al campo e corrompesse le guardie, liberasse Haim e lo conducesse da loro.
Ciotka si mise in viaggio ma strada facendo bevve un po’, divenne allegra, passò accanto ad una fiera, salì su una giostra, si divertì e quando finì di spendere tutto il denaro che aveva con sé tornò a casa senza Haim. Quella notte i tedeschi giustiziarono tutti i prigionieri del campo e anche Haim morì. Quando Leib ed Ester vennero a sapere che Haim non era più in vita decisero di salvare un altro ebreo, che per quanto non fosse loro amico stretto possedeva una vasta cultura ebraica e parlava la lingua della Bibbia. Poiché credevano che non fossero rimasti quasi ebrei al mondo, a ritenere indispensabile tentarono di salvare chi potesse perpetuare lo spirito e la tradizione ebraica. A volte penso: tre ebrei vivevano dietro una parete, ignari di ciò che avveniva nel mondo, eppure decisero di salvare qualcuno in grado di tramandare l’ebraismo. Questa fu la loro considerazione a quell’epoca. Così fecero arrivare Efraim e dopo di lui un altro ebreo più anziano di tutti loro. Ora erano in cinque. La distanza tra le pareti era di pochi centimetri, di notte uscivano strisciando dall’intercapedine e dormivano sul pavimento del salotto di Ciotka.
La mattina, prima che il sole si levasse, rientravano strisciando attraverso un pertugio nascosto dietro a un letto, si infilavano tra le pareti e rimanevano lì, in piedi, cinque persone schiena contro schiena, faccia contro faccia. A causa della mancanza di spazio non potevano girarsi né muoversi, non potevano vedere nulla, dalle pareti regnava l’oscurità. Restavano in piedi fino al calare della notte. Di tanto in tanto da Ciotka arrivavano degli ospiti e i cinque ascoltavano i loro discorsi. La sorella di Ester che aveva diciotto anni, nell’udire Ciotka dare consigli alle ragazze su argomenti intimi era colta da scoppi di ilarità. Ed Efraim che era sensibile alla polvere a volte starnutiva così forte che tutti temevano di essere scoperti da chi si trovava al di là della parete. Vissero così per due anni. Per un certo periodo furono trasferiti in una buca scavata sotto una stalla da cui non usciva nemmeno di notte. La maggior parte del tempo però la trascorrevano tra le due pareti, in piedi, in silenzio. Ciotka portava loro del cibo e dei vasi da notte in cui fare i loro bisogni, Ma Leib e compagni diventavano sempre più deboli, si ammalarono gravemente e non poterono ricevere cure. Da dietro la parete sentivano talvolta le voci degli ebrei perseguitati che arrivavano in quella casa a chiedere un tozzo di pane. Un giorno arrivarono due bambini e dopo di loro una vedova. Un poco alla volta queste persone smisero di arrivare. E a quel punto Leib, Ester e gli altri erano ormai sicuri di essere rimasti gli ultimi ebrei al mondo, che tutti gli altri a eccezione di loro fossero stati uccisi. Scavando nella memoria gli uomini tentarono di ricomporre un breviario di preghiere, di ricostruire un calendario ebraico. Quando giunse il giorno in cui secondo i loro calcoli cadeva Yon Kippur digiunarono e quando in base alle loro supposizioni arrivò la Pasqua si astennero dal mangiare cibo lievitato per una settimana. Rimasero nascosti fino alla fine della guerra, quando poterono uscire. Leib Rochman era molto malato e debole. I cinque abbandonarono il nascondiglio e si misero. in viaggio senza sapere per dove: cinque ebrei pressoché nudi: gli abiti che indossavano si erano logorati in quei due anni. Attraversarono i villaggi intorno a Lublin, bussarono a porte, supplicarono per un tozzo di pane e per un po’ d’acqua. Nessuno aprì. Nessuno diede loro né pane né acqua. Ovunque andassero la gente li indicava e diceva stupita, in tono di scherno: “Ma come, sono rimasti così tanti ebrei?”
Una notte trovarono rifugio in un campo di prigionieri vuoto il cui recinto era stato sfondato e lì trascorsero la notte. C’erano giacigli e tavolacci e su quelli dormirono. La mattina al loro risveglio scoprirono di essere nel campo di concentramento di Majdanek, liberato un paio di giorni prima dai russi e di aver dormito sui letti dei prigionieri. Alla luce del giorno gironzolarono per il campo e all’improvviso videro la Shoah. Non sapevano esattamente cosa fosse avvenuto negli ultimi due anni e ora vedevano davanti a sé mucchi di cadaveri e i cumuli di ceneri di chi era stato bruciato. Non riuscivano a crederci, tutto era lì, sotto i loro occhi eppure non riuscivano a capacitarsi che fosse successo veramente, che una cosa simile fosse stata possibile. A quel punto si imbatterono nel gruppo di ufficiali del campo catturati dai russi. I soldati dell’armata rossa accerchiavano i tedeschi che stavano seduti al centro, prigionieri. Così nello stesso giorno Leif e i compagni videro le vittime e i carnefici in carne ed ossa: non qualcosa di astratto, un qualche simbolo del male. Lì davanti a loro erano gli assassini che avevano messo in atto il piano della soluzione finale. Di colpo Leib Rochman non fu più in grado di sopportarlo. Corse verso un soldato russo e gli strappò di mano il fucile con l’intenzione di sparare ai tedeschi. Fermo davanti a loro prese la mira, ma non riuscì a premere il grilletto. Quasi impazzì, urlò ma non poté farlo. Allora gridò: “In piedi, a terra. I tedeschi, sicuri che stesse per ucciderli, scattarono in piedi e si lasciarono cadere a terra più volte. Leif capì che non sarebbe riuscito ad ammazzarli e non sapendo cosa fare buttò via il fucile,e  si ritirò in disparte e scoppiò a piangere a tossire per la prima volta sputò sangue. Allora scopri di essere malato di tubercolosi. Leib e Ester Rochman ebbero molte altre vicissitudini, attraversarono numerose nazioni e alla fine giunsero nella terra di Israele, si stabilirono a Gerusalemme ed ebbero un figlio e una figlia. quest’ultima Rivka Myriam Rochman, la poetessa è una mia cara e buona amica ed è da lei che ho appreso questa storia.
Leib Rochman fu giornalista dell’emittente radio israeliana Call Israel ma per gran parte della sua vita si dedicò alla scrittura. Pubblicò due romanzi e una raccolta di racconti che ritengo esempi meravigliosi di letteratura innovativa, profonda, che discende negli abissi dell’animo umano. Questa è la storia sua e di sua moglie Ester. Ci sono altri milioni di storie come questa. Ogni persona morta o sopravvissuta è una vicenda a sé e tutte queste storie in apparenza si mantengono solo piano totalmente diverso da quello su cui sono dibattute oggi le grandi questioni relative alla Shoah, sempre che siano dibattute. Tali questioni vertono soprattutto sulla negazione della Shoah, sull’incremento del numero dei neonazisti in diverse Nazioni e sul rafforzamento dell’antisemitismo nel mondo.
Negli ultimi anni la discussione circa il diritto dei tedeschi di considerarsi vittime di quella guerra al pari di altri popoli o addirittura di creare una simmetria, errata e inammissibile a mio parere, tra la loro sofferenza e quella degli ebrei durante la Shoah, si fa sempre più accesa. Le vicende personali di Leib ed Ester Rothman, così come quelle di altri milioni di persone, si mantengono come ho detto su un piano diverso, ma senza di esse un dibattito sulla Shoah non sarebbe completo e sarebbe impossibile creare un legame emotivo tra le generazioni future e ciò che avvenne allora.
Dirò di più: senza quelle storie personali il dibattito sulla Shoah potrebbe talvolta apparire un tentativo inconsapevole di difendersi dall’orrore palese e si potrebbe ipotizzare che senza di esse il dibattito generico, di principio, si spegnerebbe lentamente. Proprio le vicende individuali private sono il luogo più universale, la dimensione entro la quale è possibile creare il senso di identificazione umana e morale con le vittime che permette a chiunque di porsi ardui interrogativi: come mi sarei comportato io se fossi vissuto a quell’epoca, in quella realtà? come mi sarei comportato se fossi stato una delle vittime o un connazionale degli aguzzini? Ho l’impressione che fino a che non risponderemo a queste domande ognuno per proprio conto, fino a che non ci sottoporremo a questo autointerrogatorio non potremo dire a noi stessi di aver affrontato pienamente ciò che avvenne laggiù. E se non lo faremo dimenticheremo. Più si assottiglia il numero dei sopravvissuti e malgrado il lavoro di documentazione portato avanti da Yad Vashem, il museo israeliano dedicato alla memoria delle vittime della Shoah, e nell’ultimo decennio dall’archivio Spielberg, più cresce l’importanza dell’arte quale possibile mezzo per affrontare questi interrogativi. La letteratura, la poesia, il teatro, la musica, il cinema, la pittura e la scultura sono i luoghi in cui l’individuo moderno può affrontare la Shoah e sperimentare le sensazioni e la particolare esperienza umana che la ricerca e il dibattito accademici solitamente non sono in grado di far rivivere.
Stalin disse una volta che la morte di un uomo è una tragedia, quella di milioni è statistica. Grazie all’arte noi siamo in grado di redimere la tragedia della statistica, di riscattarla da una visione astratta, accademica, di studio. L’arte è lo strumento più accessibile e comprensibile con il quale gran parte di noi può oggi venire a contatto direttamente e lucidamente con la memoria della Shoah e con gli insegnamenti che da essa derivano. E’ una grossa responsabilità per gli artisti presentare le cose in modo immediato, non manipolativo, sentimentale, volgare o esaltato. E’ molto difficile penetrare in quelle tenebre, nel luogo dove tutte le bussole impazzirono e mostrare chiaramente la follia di ciò che avvenne. Mediante l’arte possiamo ravvivare il linguaggio col quale descrivere ciò che avvenne non sedimentarci in cliché di parole e di sentimenti intesi in verità, a proteggerci da quella insopportabile sofferenza. ​
Ancora e ancora in una infinità di varianti dobbiamo raccontare a noi stessi e agli altri quella storia terribile con tutte le sue atrocità, ma anche con le sue scintille di luce e di pietà e di compassione e di coraggio, raccontarne i substrati con gli strumenti della coscienza, dell’intelletto, del sentimento, raccontarla basandoci sulla conoscenza dei fatti storici. Facendo riecheggiare gli interrogativi morali sociali e filosofici che essa risveglia, ma mantenendo sempre un legame con le vicende personali degli esseri umani che la vissero, vedendo noi stessi laggiù, al posto loro, con loro identificarci totalmente con la donna, con l’uomo con il bambino costretti a spogliarsi gli uni davanti agli altri un attimo prima di essere giustiziati e gettati in una fossa. Tornare ad essere con i due bambini ebrei presi prigionieri durante un rastrellamento mentre giocavano a pallone con i loro amici cristiani e quando il treno che li trasportava via passò accanto al campo di calcio videro attraverso le fessure del vagone I loro compagni che continuavano a giocare: Tornare ad essere con i residenti del ghetto di Wodz ai quali i nazisti ordinarono di scegliere ventiquattromila tra vecchi e bambini che venissero inviati allo sterminio, ma ai quali promisero che se avessero scelto piccoli sotto dieci anni altri quattromila bambini avrebbero potuto essere salvati.
Tornare ad essere con le due donne e i tre uomini che per giorni e settimane e mesi e anni rimasero in piedi al buio, tra due pareti. Il mio modo di tornare a raccontare questa storia è stato riscrivendo Vedi alla voce: amore. Scrissi quel libro perché ero arrivato a un momento della mia vita in cui sentivo di non poterne più fare a meno, di non poter più vivere e comprendere appieno la mia vita di essere umano, di padre, di ebreo, di israeliano e di scrittore fintanto che non avessi sperimentato grazie alla scrittura l’esistenza che non avevo avuto laggiù, all’epoca della Shoah. Dovevo capire se e in che modo sarei stato in grado di mantenere una parvenza umana qualora mi fossi trovato laggiù come una delle vittime o, Dio non voglia, uno dei carnefici. Volevo sapere cosa un uomo deve cancellare o rimuovere dentro di sé per poter essere parte di un meccanismo omicida. In altre parole cosa avrei dovuto sopprimere in me stesso per poter sopprimere altri o anche soltanto accettare quella situazione in silenzio. E’ evidente che tali interrogativi sono pertinenti non solo al periodo della Shoah ma anche a situazioni meno estreme. La vita moderna e la società umana costituitasi intorno a noi, aggressiva, anonima, aliena ci sfidano a porci questi interrogativi in un’infinità di contesti e di circostanze. Ognuno di noi può rispondervi a modo proprio. Io lo faccio scrivendo.

Immagino che questo sia il motivo per il quale avete deciso di concedermi oggi questa laurea ad honorem. Prometto che i miei libri continueranno a porre questi interrogativi e cercheranno di darvi una risposta. Ancora, ancora e ancora.”

Città Isaura

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