Gianni Minà: l’arte di guardare negli occhi

Ciao Gianni, ciao Maestro, ciao amico.

Mi inchino al percorso della tua vita di impegno, di passione, di incrollabile fiducia nella possibilità di cambiare il mondo, i valori dominanti, la direzione in cui sembra girare la ruota degli eventi. “Sono sempre andato controcorrente” hai detto in una delle ultime interviste riassumendo al meglio il senso della tua vita.
Credevi nell’intervista come strumento di dialogo, di conoscenza, di costruzione di relazioni umane ben prima di quello che poi avresti raccontato e mostrato in pubblico. Sapevi leggere nel profondo dell’anima e del cuore delle persone che incontravi, da quelle più grandi e famose a quelle del tutto sconosciute.
Fu proprio per un’intervista che ci incontrammo per la prima volta. Arrivasti affannato e trafelato, due ore dopo l’appuntamento, ma con il sorriso aperto e le scuse su un piatto d’argento. Avevi già annullato all’ultimo momento i due appuntamenti precedenti. Stavo scrivendo un libro su sport e televisione e non volevo rinunciare ad ascoltare dalla viva voce l’esperienza di chi, insieme a Sergio Zavoli, Antonio Ghirelli, Maurizio Barendson, aveva innovato il modo di raccontare lo sport e, attraverso lo sport, il mondo intero. Ascoltai tutto quello che volevi dirmi, registrai il fiume in piena dei tuoi ricordi: tutto sempre guardandoci negli occhi, entrando in contatto diretto. Fu un dialogo di due ore e alla fine mi dicesti semplicemente: “Ti metto sul mio libro nero” e trascrivesti il mio numero di telefono (fisso, cellulari e mail erano ancora di là da venire) su quella agenda corpacciosa e fitta di appunti e numeri di telefono resa poi famosa da Massimo Troisi. La puntualità non era il tuo forte, a volte ti aspettavano in sala montaggio per dodici ore, poi arrivavi, davi le istruzioni del caso e ti addormentavi sul divano. Non facevi caso alla fatica, né al tempo né al denaro, come non ti riguardassero. Facevi caso invece alle relazioni, come la risorsa più preziosa della vita. Per te erano importanti le persone, non i personaggi e la loro fama. Per te era importante guardare negli occhi l’altro, sorridere, stare in ascolto e mettere a proprio agio l’interlocutore, chiunque fosse. E questo era sufficiente a stabilire una connessione vera, permanente.

“Buongiorno. Vuole lavorare con Gianni Minà?” Ho ancora in mente la sorpresa, il piccolo stordimento, il “Non ci posso credere” che mi attraversò in un attimo un pomeriggio d’estate del 1987 alla telefonata di un dirigente di Raitre. Non ricordo come detti subito il mio “Sì, certo, da quando?” contenendo la sorpresa e la gioia di una proposta del tutto inattesa.
Non mi avevi preannunciato nulla, ma ti eri ricordato di me e avevi ripescato il mio numero su quella tua mitica agenda, alla stessa lettera M di Mandela e di Mohamed Alì, sulla base di quella sola prima impressione di un dialogo di due anni prima. Quando Raitre ti affidò un programma nella seconda serata del sabato, “Domani si gioca”, mi scegliesti fra i cinque giornalisti della trasmissione, anche se ero vicino ai quaranta, ero ancora pubblicista e non avevo alcuna esperienza televisiva. Ti telefonai per ringraziarti, mi dicesti solo: “Non accettare la prima offerta economica che ti fanno, ci penso io” e per tutti noi ottenesti un trattamento speciale.
Due mesi dopo firmai il mio primo contratto di nove mesi con la Rai e la prima cosa che mi affidasti fu uno special biografico sul neocampione del mondo dei cento metri Ben Johnson, da realizzare insieme a Michel Platini, alla sua prima stagione da non giocatore, affiancandomi a un regista d’eccezione, Paolo Brunatto, trecento documentari all’attivo tra cui i backstage di Bertolucci. Mi chiedo ancora: come potevi fidarti quasi ciecamente di una persona a te sconosciuta? Non lo so, ma grazie a questa fiducia a priori mi hai regalato uno straordinario battesimo del volo e la possibilità di apprendere, conoscere, esplorare in pochi mesi i segreti del racconto televisivo che avrebbero segnato tutta la mia vita professionale.

Amavi il lavoro di gruppo, quello in cui prima di ogni servizio si confrontavano le idee di regista, giornalista, operatore, montatore, assistente, il tutto sotto la tua supervisione anche solo silenziosa. Amavi quella good television ormai morta e sepolta, in cui ogni sequenza doveva avere un senso preciso. Quei nove mesi di lavoro con te sono stati una miniera piena di tesori da scoprire e fu per tutti noi l’università del racconto per immagini. Mai più, nei trent’anni successivi di Rai, ho avuto occasione di imparare tanto. Da te ho appreso che bisogna sempre mirare in alto, che i personaggi, anche quelli più famosi e apparentemente irraggiungibili, sono prima di tutto persone, che gli incontri e i dialoghi sono importanti per le relazioni prima che per i prodotti che ne puoi ricavare. E che guardare negli occhi il proprio interlocutore è ben più importante del mettersi in mostra e del guardare nel buco nero della telecamera. Quella trasmissione non appartiene alla collana dei tuoi successi, confinata in orari improbabili e pensata in forme non compatibili con i tempi e gli stilemi della tv commerciale.
L’intervista a Fidel contribuì al tuo definitivo isolamento dalla tv pubblica. Ma, fuori dai riflettori, hai sempre continuato nel tuo impegno sull’America Latina, coerente con la ricerca di voci e informazioni nascoste dal mainstream e con la lotta contro tutte le ingiustizie.

Grazie, caro Gianni, caro Maestro, caro amico. Ti sia lieve il nuovo viaggio.

 

 

 

 

Città Isaura

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