Mahasweta Devi: amore per gli oppressi, per noi e per la Natura

Mahasweta Devi(n. a Dacca, Bangladesh, 1926, m. a Calcutta, India, 2016) fa parte della selezione dei “trentadue scrittori dal mondo” scelti per comporre il libro Un filo di voci. Il racconto dell’incontro con lei è parte del capitolo intitolato “Barriere coralline. La scrittura in difesa dell’ambiente”, insieme ad altri due scrittori indiani molto più conosciuti ai lettori italiani, Amitav Ghosh e Arundhati Roy. Ecco una breve selezione della parte dedicata a lei, insieme al video delle teche Rai (dal programma storico Incontri) e al testo integrale dell’intervista.

Quando, nel 2005, la prestigiosa giuria internazionale del Premio Nonino le assegna il titolo di Maestro del nostro tempo, Ermanno Olmi le fa una pubblica dichiarazione d’amore, per la forza e la profondità della sua scrittura, per la militanza politica e sociale di cui ha fatto una ragione di vita per oltre mezzo secolo.
Quando la incontro, in Italia per la prima volta in occasione del Premio, Mahasweta Devi, a quasi ottant’anni, dimostra un’energia vitale che trasmette a chiunque gli stia intorno e che si traduce in sorrisi, sguardi attenti, curiosità, voglia e piacere di raccontare.
Quelli che scrive sono racconti crudi, conosciuti direttamente dalla relazione con tribù della sua regione d’origine, il Bengala occidentale. Intrecciano fatti reali con la mitologia indiana, sono storie antiche e contemporanee al tempo stesso.

In un mondo globalizzato le voci che lei raccoglie e diffonde attraverso le traduzioni dei suoi libri raggiungono popoli di molte culture. Come è possibile unire le voci dei dahlit e degli adivasi indiani con le altre voci degli oppressi?

«Penso che sia davvero possibile perché fino a oggi noi abbiamo fatto questo in tutto il mondo. Il termine “globalizzazione” è una parola contemporanea, ma in tutto il mondo non c’è ancora una resistenza interna, non c’è lo spirito per resistere a questo fenomeno.  Chi sono io? Non sono un politico, non ho voce, sono una scrittrice, ma quello che sto cercando di fare è essere quello che siamo, mangiare lo stesso cibo, fare le stesse cose di sempre. È anche questa la resistenza contro la globalizzazione. Molta gente mi chiede: “perché non hai mai comprato una casa, perché non hai una macchina?” Io rispondo: “Non le avrò mai”. Avere una casa o una macchina o seguire la moda, o cose di questo genere, io non ci credo. Non ho mai avuto questo tipo di aspirazioni. Le cose che contano sono amare le cose che hai fatto, leggere i tuoi libri, cantare le tue canzoni. Lascia che le madri cantino le loro ninna-nanne, ama il mondo e possibilmente pianta uno o due alberi e fai qualcosa per un altro essere umano, ovunque, di ogni casta e ogni nazionalità. È questo che vuol dire essere se stessi, e quello che la natura vuole che noi siamo.»

«Tutte le nostre esperienze sono la stessa cosa. Quello che succede in India, in Gujarat, gli eccidi che ci sono stati di recente, sono orribili, ancora di più della Seconda Guerra Mondiale, perché succedono oggi, nella nostra India. Così quello che torna a succedere periodicamente ci travolge. Ma da qualche parte qualcosa ci dà la forza di reagire e ritrovare il nostro coraggio. Dovremo essere capaci di stare bene in piedi, salutare il sole e andare avanti. A tutto ciò che accade tutti gli esseri umani sono in grado di reagire e da qualche parte stiamo già combattendo tutti insieme superando le nostre divisioni, questa fase di transizione, questi egoismi. Dovunque siamo in grado di fare qualcosa stiamo attuando una resistenza, combattiamo questa globalizzazione. Quello che arriva è uno tsunami, lo possiamo vincere solo unendo la nostra capacità di resistenza. Quando mio nipote mi ha chiesto cosa possiamo fare, gli ho risposto: essere quello che siamo. Viviamo con i nostri mezzi, siamo felici di quello che abbiamo, e cerchiamo di fare quello che vogliamo. Anche piantare degli alberi è qualcosa di grande.»

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Città Isaura

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