Il miraggio del Paradiso. Azar Nafisi e il suo Iran perduto

Nelle scorse settimane la scrittrice iraniana Azar Nafisi è venuta in Italia per presentare il suo nuovo libro Quell’altro mondo. Nabokov e l’enigma dell’esilio. Nabokov è l’autore che aveva ispirato anche il suo libro che l’ha fatta conoscere al mondo, Leggere Lolita a Teheran, in cui raccontava le sue lezioni, una specie di cenacolo letterario, a un gruppo di ragazze che si riunivano a casa sua per parlare di testi proibiti nell’Iran degli ayatollah.

Il video delle Teche Rai con quest’intervista, realizzata per la rubrica Incontridi Rainews24 al Festivaletteraturadi Mantova nel 2004, testimonia, a quasi vent’anni di distanza, l’assoluta attualità dei temi trattati già allora da Azar Nafisi, ora che sono al centro delle proteste di tutta la società civile iraniana.
Ad Azar Nafisi è dedicata una parte del capitolo “L’amore che move il sole e l’altre stelle” di Un filo di voci. 32 scrittori dal mondo. Con lei nello stesso capitolo il racconto degli incontri con Alda Merini e Nicole Krauss. Ecco un estratto dalla parte a lei dedicata:

 

«Ci sono – dirà nell’intervista – “ali che nessuno può tagliare”. In lei vengono da molto lontano, da quattordici generazioni di letterati in quella Persia che oggi si chiama Iran. Sono l’eredità di una famiglia libera, con il padre sindaco di Teheran negli anni Sessanta e la madre prima donna eletta nel Parlamento iraniano. Esule negli Stati Uniti, Azar Nafisi ha raccontato la sua storia di docente allontanata dall’Università di Teheran per non aver rispettato le regole sull’abbigliamento, che continua clandestinamente le lezioni a casa sua, leggendo con sette studentesse i capolavori di Vladimir Nabokov, Gustave Flaubert,Henry James, Jane Austen

Quasi all’inizio del suo libro lei parla della ricerca del colore del paradiso e, rispondendo a suo padre, dice «Il paradiso per me è quello» e gli mostra un piccolo quadro. Oggi esiste ancora nella sua concezione un paradiso o non esiste più? E, se esiste, che colore ha?

«Il paradiso, come la felicità e i sogni, più che averli, bisogna inseguirli. Diventa pericoloso quando si pensa di possederlo: la vita finisce. Il paradiso è come i sogni: dà motivazioni alle persone e si ricrea costantemente. Quando chiesi a mio padre cosa fosse il Paradiso, la mia nozione di paradiso era una cosa. Adesso che sono … cresciuta (fa una pausa e ride), porto con me quel paradiso, ma ho aggiunto altro. Cerco costantemente il paradiso, e non l’ho mai trovato.»

Lei parla di due mondi, quello reale e quello immaginato, immaginario. Anche la letteratura è in qualche modo una ricerca del paradiso?

«Lo è in modo differente. La letteratura, in parte, parla del paradiso. La realtà ci pone sempre delle limitazioni: nasci in una determinata famiglia, il nome che ti viene dato, il tuo Paese, la tua lingua, tutto questo è già determinato. La letteratura ti fa uscire, ti permette di rompere tutti questi limiti. Nella mia immaginazione io non sono Azar, posso essere qualsiasi cosa, non sono un’iraniana, sono una cittadina del mondo. Così penso che la letteratura non affronti solo ciò che esiste, ma ciò che potrebbe o dovrebbe esistere. Ed è per questo che la nostra immaginazione è tanto importante per noi, perché non possiamo vivere solo dentro le nostre limitazioni, dobbiamo creare coscientemente delle ali e le ali migliori sono quelle che nessuno può tagliare.»

Nel suo lavoro e nel suo libro lei ha cercato di legare questi due mondi, lo ha fatto per lei ma anche per le sue allieve. Com’è stato questo lavoro?

«Per noi è stato molto difficile, perché il mondo della realtà era così rigido che spesso volevamo espandere l’altro mondo e restare lì. Ciò che facevamo in quelle ore insieme in classe era coltivare la virtù di essere noi stesse. Ci preparavamo a tornare indietro in quel mondo. Questo ci dava potere, ci dava un senso di rispetto per noi stesse. Una delle cose che fa un regime totalitario è togliere il senso del rispetto perché devi costantemente negare chi sei, invece stare insieme e dire una all’altra chi siamo ti fa bene: non sei costretto a nasconderti, ti prepari a rientrare in quel mondo. Ma questo era sempre difficile, non era mai facile tornare alla realtà.»

Tra le frasi che lei cita ce n’è una di Nabokov: «La curiosità è insubordinazione allo stato puro.» Anche questa consapevolezza è importante nei Paesi dittatoriali?

«Qui penso che un grande autore come lo stesso Nabokov ci insegna a essere ribelli, a compiere atti di insubordinazione non solo in senso politico ma in modo molto più profondo. Chi non è curioso applica sempre delle formule e al pensiero dittatoriale, sia esso politico o no, le formule piacciono. Gli piace dirti: “le cose stanno così e nulla cambierà”. Con l’immaginazione, con la curiosità tu dici “no, le cose non sono così, non le voglio più”. Così più vuoi, più confini rompi. Più osi fare cose belle, più questo ti può cambiare tutta la vita. In questo senso penso che la curiosità sia insubordinazione, non solo contro il mondo, ma contro il dittatore che è in te, perché tutti abbiamo un dittatore dentro di noi che ci dice “non guardare, non sentire”, ed è la curiosità che ci fa aprire al mondo.»

Lei dice: «È una cosa che riguarda tutti noi, non solo chi vive sotto le dittature». C’è un curioso fenomeno che vediamo bene al Festivaletteratura, e non solo qui. La stragrande maggioranza dei lettori sono donne e la stragrande maggioranza di non lettori sono uomini. Quali sono le conseguenze, dato che le donne cambiano e hanno questo mondo immaginario, mentre gli uomini prevalentemente non leggono e continuano ad avere il potere?

«Questa è una splendida domanda. Questo si nota specialmente per la narrativa. Di solito al centro del romanzo la figura sovversiva è una donna, perché il romanzo tratta le relazioni individuali e come cambiarle, e le donne, poiché una volta avevano più limitazioni, devono costantemente dire “no: noi faremo quello che vogliamo, andremo oltre questo confine”. Quello che accade è che se le donne, attraverso queste letture e questi scambi, diventano più consapevoli di questo loro potere, cambiano. Quelli cui non piace cambiare saranno obbligati, però resta il fatto che a loro non piace. Ma gli uomini diventeranno attivi anche loro, perché in fondo le donne sono la metà di questa società e se la metà di questa società dice no, l’altra metà deve per forza ascoltare. È solo quando la voce delle donne non viene ascoltata che l’altra parte può ignorarla. Così le donne dovrebbero raccontare di più le loro storie e dovrebbero far sì che gli altri le ascoltino. È davvero come dice Muriel Sparks: “è bello essere donna e scrittrice in questo secolo”» [ride].

A questo si ricollega anche la questione del velo, che lei ha provato direttamente. Che esperienza è stata quella di portare il velo essendo costretta a portarlo?

«Per me la questione di portare o non portare il velo implica una questione di scelta. Credo che a nessuna donna si dovrebbe dire come creare un rapporto con la sua divinità, o di non crearla. Si crede che il velo sia il modo di esprimere la propria fede che ad alcune donne piace scegliere. Il loro governo o il loro Stato o il loro padre non hanno alcun diritto di imporre questa scelta. Così quando mi hanno obbligato a portare il velo ho pensato che il diritto di scelta non veniva rubato solo a me, ma anche alle donne che volevano portare il velo, perché a quel punto la loro fede non era una questione religiosa, ma politica, e credo che oggi il velo sia confiscato e usato come strumento politico e per questo è importante che siano le donne a scegliere come vogliono apparire in pubblico.»

A proposito del velo: è un problema che riguarda solo le donne orientali o c’è anche un’altra forma di velo che riguarda anche l’Occidente?

«Sì, c’è anche un aspetto diverso. All’inizio del ventesimo secolo una meravigliosa donna araba scrisse un libro su sette tipi di velo. Parlò di quello che è il velo reale, poi passò a descrivere il velo dell’ignoranza, per esempio. Noi ci creiamo i nostri veli, noi sovrapponiamo la nostra immagine a quella che gli altri hanno di noi, cerchiamo di nascondere agli altri ciò che è privato ed essenziale e in Occidente ci sono dei modi per dire alle donne a che cosa dovrebbero somigliare, come ci si aspetta che debbano agire. Anche quando sembrano molto libere, come nell’immagine di Britney Spears, che tutte le giovani vogliono imitare, il velo in questione è il problema dell’uniformità, e non importa dove tu viva, all’Est o all’Ovest, ma l’uniformità ti può essere imposta. La differenza in un paese democratico è che al di là di questo puoi scegliere di dire: “non lo voglio”. Puoi scegliere di dire “il modello dominante di cultura negli USA è sbagliato e io voglio cambiarlo”. In un regime totalitario non puoi. Così non è una questione di avere un diritto, ma di avere il diritto di battersi per un diritto [ride]. E questo è importante.»

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Città Isaura

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